Il Sake o Nihonshu
Se avete seguito il nostro video introduttivo al mondo del Sake sapete già che il vero nome di ciò che noi intendiamo come Sake è in realtà Nihonshu. Questa parola si traduce letteralmente come “alcool giapponese”, mentre Sake si usa per indicare una “bevanda alcoolica” in genere.
Cercheremo ora di esaminare più nel dettaglio questo mondo, partendo dai metodi di produzione ed arrivando a considerare le diverse tipologie di Nihonshu, a cui, da bravi bartenders, abbineremo distillati e prodotti homemade per creare cocktail spettacolari!
Il Nihonshu è un prodotto complesso, a volte molto delicato, altre intenso ed irruente, composto sostanzialmente da quattro elementi: acqua, riso, lievito e Koji. Vediamoli nel dettaglio.
L’acqua utilizzata per produrre Nihonshu, al pari di quella utilizzata per la produzione di birra, liquori o distillati, deve essere il più pura e pulita possibile, non a caso nella storia del Nihonshu i prodotti che più sono emersi e si sono imposti per qualità, sono quelli usciti dalle aziende che hanno avuto la capacità ed astuzia di costruire e produrre vicino ad una fonte d’acqua cristallina.
A seconda del tipo di acqua che viene utilizzata, più o meno ricca di minerali, potrà nascere un Nihonshu maggiormente ricco di sapori, o più delicato. C’è però un fattore chiave nella scelta dell’acqua di produzione, perché se è vero che la ricchezza di minerali sarà parte integrante e peculiare del profilo organolettico del nostro Nihonshu, è vero anche che una presenza troppo massiccia di ferro e manganese porterebbe sentori ed aromi sgradevoli al prodotto finale.
Il riso è per il nostro Nihonshu ciò che è l’uva per il vino o l’orzo per la birra, la nostra materia prima per eccellenza, colei che donerà al prodotto finale tutti i sentori primari a naso e palato. Così come per l’uva troviamo migliaia di biotipi differenti, stessa cosa dicasi per il riso, di cui troviamo decine e decine di varietà sparse per il Mondo.
In Giappone le tipologie di riso volte alla produzione di Nihonshu vengono definite Sakamai [riso da sake]; ma in cosa si differenziano rispetto al riso da tavola? Il Sakamai è più grande rispetto al riso da tavola [Hanmai] e presenta uno “Shimpaku”, cioè un cuore amidaceo, maggiore rispetto al comune riso, ha inoltre una barriera esterna formata da proteine e lipidi sottile, ma resistente: sono queste le caratteristiche perfette per un buon Sakamai. Come per gli uvaggi nel vino, esistono tipologie di Sakamai più pregiate di altre, come il famoso Yamadanishiki[delicato e aromatico, offre sentori fruttati in fermentazione] o il Goyakumangoku[grande secchezza].
Una volta selezionato il nostro riso prima di cominciare la produzione del nostro Nihonshu andrà sottoposto ad un processo di lavorazione, vediamolo più nel dettaglio.
Per prima cosa andrà sbramato, questo processo consiste in una levigatura esterna del chicco, nella quale, in modo meccanico, si eliminano in parte proteine e lipidi, concentrando gli amidi che ci interesseranno per la fermentazione.
Il grado di levigatura del chicco si chiama Seimai buai, ed è espresso in percentuale, maggiore sarà la parte che andremo ad eliminare maggiore sarà la concentrazione amidacea, quindi maggiori saranno i toni delicati e fruttati del mio prodotto finale, se al contrario la sbramatura sarà leggera, la maggior quantità di minerali, grassi e proteine rimaste potrà darmi sentori più lattici, umami o addirittura terrosi e di sottobosco.
Una volta levigato il chicco e lasciato riposare per diversi giorni, si procederà a lavarlo per eliminare la polvere in superficie, dopodiché subirà un processo di immersione per fargli assorbire umidità.
Maggiore sarà il grado di levigatura, minore sarà il tempo di immersione [nell’ordine delle decine di secondi] al contrario, per chicchi poco sbramatil’immersione potrà durare per parecchi minuti.
Poiche l’umidità assorbita ci servirà durante la produzione è essenziale conoscere bene la propria materia prima, nel caso l’idratazione fosse eccessiva, il chicco potrebbe danneggiarsi.
Il prossimo passaggio prevede che il riso subisca una sbollentata a vapore una volta inserito in una grande tinozza, chiamata Koshiki. Questo è un altro processo delicato, in cui non bisogna rompere i chicchi, per evitare fermentazioni precoci. Il risultato sarà un riso duro all’esterno e morbido all’interno, che chiameremo Kakemai.
Una volta sbollentato, al nostro riso, verrà prelevata la parte superiore, circa il 20%, perchè rimane più integra, e verrà destinata alla Koji muro, cioè la stanza del Koji.
FUNGO KOJI
È questo il nostro terzo elemento del Nihonshu: il Koji, che prende il nome specifico di Aspergillus Orizae; per la precisione esistono tre principali tipologie di Koji: bianco, nero e giallo, è quest’ultimo quello dedito alla produzione di Nihonshu.
Ma cos’è, ed a cosa serve il Koji?
Il Koji è un miceto filamentoso, quindi un fungo, le cui spore vengono sparse sopra al nostro Kakemai che da ora prenderà il nome di Kojimai, in una stanza con temperatura elevata[35°] per garantire e favorire lo sviluppo di questo microorganismo, che servirà per indurre la saccarificazione dell’amido.
Il Koji procederà infatti ad attaccare il nostro riso, permettendo la glucoamilasi, cioè la scissione dei carboidrati complessi che formano il nostro riso[lunghe catene di carboidrati] in zuccheri più semplici[saccarosio]; questo processo è importantissimo per facilitare il successivo lavoro dei lieviti, che lavorano su zuccheri semplici e non su carboidrati complessi difficilmente fermentiscibili. Per farvi capire la facilità di “lavoro” sugli zuccheri semplici rispetto a quelli complessi, vi basdti pensare alla facilità con cui fermenta la frutta rispetto ai cereali.
Il processo dura due giorni, alla fine del quale il Toji, il maestro della Sakagura[cantina di sake] potrà cominciare il processo fermentativo.
Il passaggio successivo è infatti la creazione di una “madre”, come nell’aceto o nell’impasto del pane, che in giappone chiamano Shubo: essa viene formata da acqua, Kojimai, Kakemai[se ben ricordate avevamo prelevato per fare il koji mai la parte superiore del riso sbollentato, quella inferiore viene infatti destinata al resto della produzione] e ovviamente lievito, che sarà responsabile della nostra fermentazione.
Oggigiorno la maggior parte dei produttori inoculano dell’acido lattico nello Shubo, ma la ricetta più tradizionale e oggi meno usato, vorrebbe che esso si formasse da solo; quest’ultimo favorisce un habitat acido selettivo per lo sviluppo dei lieviti ed impedisce proliferazioni batteriche indesiderate.
Anche l’utilizzo di lieviti naturali presenti nell’aria è più tradizionalistico, anche se non mancano cantine che inoculano ceppi di lieviti selezionati.
I lieviti utilizzati sono della famosa famiglia dei Saccharomyces Cerevisiae.
La formazione dello Shubo dura dalle 2 alle 4 settimane, a seconda che l’acido lattico venga inoculato[Sokujo] o venga lasciato formare naturalmente, nel secondo caso il Nihonshu viene definito di tipo Kimoto.
Alla formazione avvenuta dello Shubo[circa 15° alcolici], si procede al passaggio finale: utilizzando lo shubo, ulteriore Kojimai ed ulteriore Kakemai, assieme ad acqua, si forma il Moromi, che sarà il mio fermentato finale.
Il moromi viene formato in tre passaggi[Sandan gikomi = 3 passaggi], durante quattro giorni, ad ogni passaggio verrà aggiunto nuovo Kojimai, nuovo Kakemai e nuova acqua, in porzioni diverse per ognuno dei tre step; alla fine dei 4 giorni verrà lasciato fermentare da 25/30 giorni fino a 45 per prodotti più pregiati.
Questo processo è unico nella produzione di fermentati, poiché mentre il Koji converte i carboidrati complessi del riso aggiunto in zuccheri più semplici, il lievito trasforma questi ultimi in alcool e anidride carbonica, dando vita ad una fermentazione multipla e parallela.
Una volta terminata la fermentazione manca ancora un passaggio affinchè il nostro prodotto possa essere definito Nihonshu, questo passaggio consiste nel processo di filtrazione che può essere fatto in modo gravitazionale, lasciando percolare quindi il nostro prodotto da un sacco sfruttando il suo peso, oppure attraverso una pressa a membrane [processo moderno più veloce ed efficace].
Abbiamo così ottenuto il nostro Nihonshu, ma alcuni accorgimenti successivi porteranno il prodotto ad essere pronto per approdare sul mercato.
Uno di qeusti è la pastorizzazione, la procedura in questione è utile per stabilizzare il prodotto finale e può essere fatta prima o dopo la maturazione, rispettivamente “Nama-Chozo” e “Nama-zume”, precedente all’imbottigliamento, o può non essere eseguita affatto”Nama-Sake”, in quest’ultimo caso il prodotto risultante sarà molto delicato.
Seguirà poi la diluizione con acqua del Nihonshu, ma alcuni prodotti vengono commercializzati non “tagliati” e prenderanno così il nome di Genshu.
Ma come e cosa arriva sui nostri banconi? È bene precisare che il Nihonshu importato in italia è solitamente un prodotto “premium”, essi sono caratterizzati da una sbramatura di almeno il 30%, sotto questa soglia il Nihonshu viene chiamato Futsushu ed equivale al nostro vino da tavola di scarsa qualità.
Escludendo il Futstushu, avremo una classificazione dei prodotti in base al seimai buai, cioè la percentuale di sbramatura del chicco, ed all’aggiunta o meno di Alcohol etilico[jozo].
Nel caso venga addizionato alcool, in grado di donare più volatilità agli aromi, ma minore persistenza dei sapori in bocca, il prodotto viene definito Hon-jozo, nel caso contrario invece prende il nome di Junmai.
Se la sbramatura del chicco è pari o maggiore del 40%, il prodotto prende il nome di Ginjo[o Junmai Ginjo senza addizione alcolica]; il mondo del Ginjo comprende una varietà di prodotti delicati e profumati, da aromi più fruttati, ma comunque saporiti.
Se la sbramatura raggiunge il 50%, con un costo di lavorazione molto alto, il prodotto viene definito Daiginjo[o Junmai Daiginjo], considerato il top come qualità, molto costoso, utilizzato principalmente per eventi particolari come feste o celebrazioni.
È importante capire che la sbramatura non è l’unico indice di qualità: esistono infatti prodotti a bassa sbramatura ultra premium e dai profumi e sapori magnifici; oltretutto, come accennato prima, l’utilizzo di Daiginjo, e spesso anche il Ginjo, è legato ad eventi speciali ed importanti, per fare dei brindisi ad esempio, mentre sulla tavola di tutti i giorni vengono consumati più Honjozo e Junmai, che meglio si adattano al pairing con la cucina tradizionale nipponica di tutti i giorni.
Esistono poi molte altre tipologie di Nihonshu, caratterizzate da combinazioni di diversi fattori che danno vita ad un mondo magico che speriamo, grazie al nostro articolo, vi abbia affascinato ed incuriosito!
Nei prossimi episodi vedremo nello specifico ogni tipologia di Nihonshu sopra citati, il nostro bartender Valerio miscelerà dei cocktail esaltando le caratteristiche di ogni prodotto.
Cheers!
Mezval